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RACCONTI ON THE ROAD

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RACCONTI ON THE ROAD

ACCESSO LIBERO
Capitolo 1 – La scoperta

Alessandro guardava la spiaggia di San Vincenzo tenendo il capo leggermente reclinato a sinistra: sintomo che la sua mente era attraversata da pensieri che appariva buona cosa tenerli al sicuro nella scatola cranica. Non sempre le vacanze al mare incontrano infatti i desideri dei turisti, per esempio flagellando le coste con venti forti e onde che tolgono ogni voglia di un bagno ristoratore. 

Sua moglie Silvia lo scrutava in tralice, con lo sguardo nascosto dagli occhiali da sole. Anche senza sentire con le proprie orecchie le parole che rimbalzavano nella testa di Alessandro, lo conosceva abbastanza bene da poterle cogliere comunque. In cuor suo sperava che si arrendesse all’evidenza di quel mare in burrasca e che da quei pensieri irripetibili potesse nascere un nuovo piano per la giornata. E così fu.

“Trekking...” - sussurrò Alessandro senza staccare dai cavalloni il proprio sguardo funereo. 

“Trekking?” - chiese Silvia poco entusiasta all’idea di avventurarsi in un bosco quando il sole era ormai già alto nel cielo. 

“Sì, trekking: so che c’è un percorso che da Populonia arriva sino a Piombino e nel mezzo c’è il monastero di San Quirico. Compriamo due pezzi di focaccia, una bottiglia d’acqua e la giornata la ripariamo così, tra macchia mediterranea e archeologia”.

Alessandro era infatti di origini toscane e conosceva quei territori molto bene poiché la famiglia della madre era originaria proprio della costa degli Etruschi. Nemmeno lui ne conosceva però ogni luogo di interesse e curioso com’era non poteva rinunciare alla scoperta di qualcosa di inedito. Del resto, il mestiere di giornalista lo spingeva sempre a cercare nuove esperienze. Spesso nemmeno lui sapeva bene cosa cercare, ma il fatto stesso di indagare su qualcosa lo intrigava ogni volta come se fosse stata la prima. 

“E monastero sia…” pensò la moglie, nonostante l’idea della scarpinata nel bosco l’attraesse molto meno di tornare a casa e restare al fresco sotto il pergolato, con un aperitivo ghiacciato e una ciotola di patatine. E aveva pure ragione: dopo quasi un’ora di viottoli su e giù, lungo un sentiero segnalato per giunta in modo approssimativo, ecco il Monastero di San Quirico. Praticamente un rudere di una quindicina di metri di lato di cui rimanevano ormai solo le basi delle mura perimetrali e ben poco di quelle interne. 

“Bello… sì, sì… valeva proprio la pena!” – lo canzonò Silvia con ancora il fiatone, tenendo le mani sui fianchi. Alessandro non sapeva bene se ridere o se arrabbiarsi. Dopo la giornata al mare sfumata, fare tutta quella scarpinata nelle ore più calde non era stata certo un’alternativa di cui rallegrarsi. Soprattutto considerando lo stato di degrado della meta.

“Dai, su: non riesci a intuire ciò che era? Pensa, quei monaci che cucinavano, facevano legna, pregavano…” – tentò di addolcire la pillola Alessandro dopo la delusione per quella pila di macerie che si parava loro dinnanzi.

“No: vedo solo una distesa di pietre. Io mangio.” – gli rispose la moglie, andandosi a sedere su una panca di legno maltenuta e tirando fuori la bottiglia d’acqua e il proprio pezzo di focaccia. 

“Arrivo subito – disse Alessandro – voglio provare a fotografarlo dall’alto, così si vede bene la pianta dell’edificio”. E si arrampicò su un muretto perimetrale. O meglio, su ciò che ne rimaneva. 

“Ma cosa fai? – lo richiamò la moglie allargando le braccia – Li vedi i cartelli? Non puoi entrare! Santa Brigida! Ora stai a vedere che ti fai pure male e ci tocca correre al pronto soccorso!”. E infatti: una delle pietre su cui Alessandro aveva poggiato il piede si staccò dal muretto e lo fece rotolare a terra sbucciandosi un ginocchio.

“Eccolo lì! Tutto bene?” – “Sì, tutto bene…”, rantolò lui rialzandosi da terra, dissimulando il più classico “Non mi sono fatto niente” nonostante il ginocchio gli facesse un male cane. Mentre si scuoteva le braghe sporche di terra lo sguardo si posò però sulla pietra rimasta scoperta per la mini-frana da lui stesso causata. Erano incisioni con caratteri che somigliavano al greco antico e la pietra stessa non sembrava dello stesso materiale di quelle poste intorno. Guardò allora la pietra franata e si rese conto che non era stata fissata al resto del muro come le altre. Infatti, solo lei si era staccata rotolando in basso, quasi fosse una sorta di cassetto aprendo il quale si aveva accesso all’incisione. 

“Silvia, vieni a vedere!” – “Manco morta! Sto già facendo fatica a ingoiare questa focaccia che sembra gomma…” – “No, davvero Silvia! Ho trovato qualcosa!”.

La moglie sbuffò, posò la focaccia, bevve un sorso d’acqua e lo raggiunse. In effetti quella pietra aveva un che di strano: perché affogare quell’incisione sotto allo strato più esterno del muro? “Falle una foto: mica puoi pensare di portartela via - suggerì ad Alessandro - e magari ricoprila, prima che ci venga a cercare l’intendenza di belle arti con l’accusa di danneggiamento di bene protetto…”.

Soluzione di buon senso, quella, come spesso gli giungevano dalla moglie. Così Alessandro ripulì come meglio poté quell’iscrizione, la fotografò con lo smartphone e poi rimise in sede la pietra di copertura. Una volta richiuso il buco, in effetti, era impossibile pensare che lì sotto ci fosse qualcosa di diverso da un’altra pietra  qualunque, tranne per un minuscolo forellino centrale che era rimasto nascosto dal muschio fino a che quest’ultimo non si era tolto rotolando via finendo a terra. 

“Chi ha messo quella pietra in quella posizione voleva sapere lui, e solo lui, quale fosse la porta per accedere a quell’iscrizione” – disse Alessandro mentre tornavano alla panca da pic-nic, cercando di coinvolgere la moglie nelle sue elucubrazioni. “Certo – rispose lei – mica poteva pensare che dopo secoli saresti arrivato tu a buttargli giù il muro col ginocchio. E piantala di far finta di niente: ti vedo che zoppichi…” – gli disse porgendogli la sua fetta di focaccia dalla consistenza del caucciù.  

Tornarono a casa e mentre Silvia si faceva la doccia Alessandro inserì quella foto su Google Lens, il motore di ricerca per immagini.

“Come no: ora te lo dice Google Lens cosa potrà mai essere scritto su una pietra sepolta da secoli.” – lo prese in giro Silvia, ridendo mentre si asciugava i capelli. Ma qualcosa la ricerca invece la produsse: non erano caratteri greci, bensì etruschi. La lingua etrusca si articolava infatti su caratteri simili a quelli greci antichi, ma di fatto non è mai stato chiaro cosa quelle sequenze di lettere volessero dire, né con che pronuncia si leggessero. “E ora a chi diavolo chiedo cosa vuol dire quell’iscrizione?” – si domandò Alessandro. 

Altra veloce ricerca sul web e scoprì che sul Monastero benedettino di San Quirico avevano lavorato le università di Firenze e di Siena. Qualche archeologo, magari, avrebbe potuto dirgli qualcosa di più. Giunto all’ottava pagina delle ricerche di Google, punto al quale difficilmente gli internauti arrivano, Alessandro trovò un nome: Oberdano Pistocchi. Nome originale, tipico della tradizione toscana di affibbiare ai figli un’anagrafe più unica che rara. Guglielmo Oberdan fu infatti patriota irredentista italiano vissuto fra il 1858 e il 1882, anno in cui venne impiccato dal Governo austriaco. Forse i genitori cullavano in sé uno spirito ribelle e lo avevano voluto trasferire al figlio.

Pistocchi aveva insegnato all’Università di Siena per oltre quarant’anni ed era ormai in pensione da tempo. Quello che si poteva trovare in rete sulle sue ricerche, però, ricadeva proprio nei desideri di Alessandro: il docente si era occupato sì di lingua etrusca, ma anche di insediamenti ecclesiastici per quasi tutta la vita, in special modo benedettini. Chissà perché. In più, aveva lavorato proprio sul promontorio di Populonia alla ricerca di necropoli satellite di quella principale di Baratti. Una combinazione dal sentore quasi magico. 

Non senza qualche difficoltà, trovò un riferimento social e decise di tentare : l’età del professore era abbastanza veneranda, quindi poteva anche darsi non fosse più nella dimensione terrena. Ma tentar, come si suol dire, non nuoce. E infatti: a sera, prima di andare a letto, arrivò la risposta del professore, con tanto di mail e di numero telefonico al quale contattarlo. 

Dopo una notte agitata, la mattina dopo Alessandro lo chiamò, cercando per prudenza di dosare le informazioni al minimo necessario per comprendere se Oberdano Pistocchi potesse essere di aiuto o meno. Gli astri risultarono favorevoli, poiché anche lui era in villeggiatura, per giunta nelle vicinanze, a Porto Santo Stefano sull’Argentario. 

“Silvia… – tossicchiò per dissimulare la massima casualità delle parole – oggi ti va di andare in un posto un po’ diverso, tipo, che so, l’Argentario? A porto Santo Stefano c’è anche la trattoria dei Frati dove mi dicono si mangi davvero bene il pesce”. La moglie ci cascò, per quanto con riserva: spesso Alessandro le giocava qualche tiro e quella proposta puzzava di trappola lontano un miglio. Infatti, solo strada facendo Alessandro le disse che avrebbero incontrato il professore. Non la prese benissimo, ma all’idea di un buon pranzo di mare l’umore virò di nuovo verso l’alto. E poi, tanto, sapeva bene che quel golpe sarebbe costato al marito qualcosa. Non sapeva ancora bene cosa, ci doveva studiare un attimo, ma gli sarebbe costato. Eccome. 

“Professore buongiorno, sono Alessandro, il giornalista che l’ha chiamata questa mattina.” – si presentò allungando la mano per i saluti. Oberdano Pistocchi aveva superato da tempo gli ottanta, ma lo sguardo era ancora vivido e profondo, reso ancor più penetrante dagli occhialini tondi con la montatura dorata e dalle folte sopracciglia il cui candore si raccordava armoniosamente alla folta barba e ai capelli che, sebbene diradati, erano raccolti sulla nuca in una sorta di cipolla. O chignon per i più raffinati. La camicia di lino, color sabbia, era attraversata da bretelle di cuoio, lasciando intravedere sul petto una collanina d’oro con incastonata una moneta romana. Appoggiato allo schienale della seggiola spiccava un bastone da passeggio la cui impugnatura d’argento era la riproduzione di un gargoyle di Notre-Dame de Paris, mentre dal pomello sinistro della sedia penzolava un panama di vimini color avorio.

Un ampio sorriso di benvenuto accompagnò l’invito a sedersi, mentre con un cenno dell’altra mano il professore richiamò l’attenzione del cameriere. “Carlo! Una bottiglia di Viogner, per favore. Bello fresco, mi raccomando!”. Un cenno del capo e un sorriso, poi il cameriere scomparve dietro la cantinetta dei vini. Alessandro e Silvia si guardarono piacevolmente stupiti: il Viogner era uno dei loro vini preferiti, scoperto da poco in un’azienda agricola della Val di Cornia in cui quella varietà era stata portata dalla Francia una ventina di anni prima.

“E così, avresti trovato un’iscrizione su una pietra…” – aprì le danze Pistocchi senza perdere tempo in preamboli e passando istantaneamente al tu. “Sì.” – rispose Alessandro, riassumendo in due minuti le modalità del ritrovamento pur omettendo i particolari più imbarazzanti, come per esempio il motivo della vistosa crosta che campeggiava sul suo ginocchio destro. “Le faccio vedere la foto.”. E gli porse il telefono. 

Il professore la guardò a lungo e divenne improvvisamente serio. Quella che a prima vista gli poteva sembrare solo una bella occasione per avere un po’ di compagnia a pranzo era divenuta invece motivo di pensieroso entusiasmo. “Chi sa di questo ritrovamento?” – chiese ad Alessandro. “Nessuno, tranne noi tre. Ho riposto la pietra di copertura e credo che nessuno avrà accesso a quell’iscrizione ancora per molto tempo. Lei ha idea di cosa voglia dire?”

“No – lo gelò il professore – ma potrebbe contenere la risposta a una domanda che mi pongo da decenni: quei monaci benedettini erano forse entrati in possesso di reperti etruschi e li avevano tenuti segreti? Ora finalmente ho la risposta. Ed è sì. E se hanno sepolto quell’iscrizione dentro a un muro perimetrale, vuole dire che ne avevano compreso l’importanza. Per fare ciò, dovevano anche avere scoperto come interpretare quelle incisioni. Ragazzo mio, ora tu mi hai dato la risposta e so anche dove cercare maggiori informazioni”. 

Alessandro era paralizzato. E Silvia uguale. Gli occhi azzurri del professore si erano illuminati mentre parlava e questo non poteva che essere di buon auspicio.

[Continua]

AUTORE

Donatello Sandroni

Contatta Donatello: donatello.sandroni@gmail.com

COORDINATRICE EDITORIALE

Livia Tutone

Contatta Livia: livia.tutone@ascenza.rovensa.com

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